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E non da altro. Non dalle proprie convinzioni estetiche o linguistiche; non dal proprio narcisismo professionale, che ha come risultato l’esibizione del virtuosismo tecnico fine a sé stesso. Non sono il solo a pensare che è la realtà ed il senso della notizia a fare il linguaggio di ripresa. Non posso accettare un linguaggio pre-confezionato, che si sovrapponga allo svolgimento dei fatti, spesso mistificandolo. Non ho bisogno di Umberto Eco per capire che staccando tra il totale del campo ed il campo stretto del giocatore, ho descritto prima la manovra collettiva e poi il gioco individuale. Sto cioè facendo cronaca dei fatti, informazione. Secondo quali criteri, se non quelli strettamente giornalistici che stanno contemporaneamente informando il lavoro del telecronista? Il regista che svolge la propria attività nella ripresa dell’avvenimento sportivo non può muoversi con criteri professionali e deontologici diversi da quelli del giornalista. Il telecronista ha quindi il diritto di attendersi un racconto per immagini costruito con gli stessi criteri professionali e gli stessi obbiettivi della sua telecronaca. Allo stesso modo, il regista nutre la legittima aspettativa che le immagini che offre alla telecronaca vengano colte ed utilizzate al meglio, con modalità che sono specifiche di ogni telecronista e costituiscono il suo personale modo di racconto. Un rapporto tra regista e telecronista nasce dunque su questa base e con questa premessa: l’identità degli obbiettivi e dei criteri professionali.
E’ noto che lo sport della nostra epoca, quello che conosciamo e che la gente vede e di cui parla, è fondamentalmente il risultato di un’esperienza mass-mediologica: non solo perché i mezzi di comunicazione di massa lo diffondono in ogni angolo della terra, ma soprattutto perché -molto spesso- lo sport è il prodotto stesso dei mezzi della comunicazione e della televisione in particolare. Di alcune discipline non si potrebbe avere nessuna esperienza visiva diretta, se non per frammenti: il ciclismo, la vela, la maratona. Per altri, la percezione diretta è fortemente limitata: l’atletica, l’automobilismo, lo sci. Anche quando, per le discipline di campo come il calcio, il tennis, il pugilato, l’esperienza dello spettatore pagante (e del telecronista) può essere diretta, la ripresa televisiva offre un prodotto e una fruizione diversa (ne discutono a lungo antropologi e sociologi) e per molti versi più accattivante. Perché? Perché il linguaggio delle telecamere consente non solo di tele-vedere (vedere non essendo sul posto) nello stesso momento in cui il fatto accade, ma di vedere con possibilità che non sono consentite allo spettatore in tribuna: vedere l’atleta in primo piano, seguirlo nel gesto atletico, valutarne il risultato, partecipare alla sua reazione, a quella dei compagni, degli avversari, del pubblico. E ancora: rivedere il momento tecnico e analizzano, collocandolo in un risultato complessivo. Questo è il racconto per immagini: il risultato del lavoro coordinato di operatori, tecnici, mixer video, mixer audio, replaysti, grafici e regista. Il mio compito, come coordinatore e direttore delle riprese, è quello di costruire questo linguaggio e di rappresentare l’evento che si svolge davanti alla telecamere. Il linguaggio dettato dalla realtà della disciplina sportiva, la sua articolazione, il suo rinnovamento per la scoperta di altri aspetti di quella realtà: questo è il lavoro proprio del regista. Dietro ogni grande evento, quando ci si confronta con gli standard internazionali e si cerca di migliorarli c’è uno sforzo di questo tipo. La regia dello sport non produce saggistica (contrariamente ai generi televisivi) e neppure cronaca, se non di colore. Su come si possa riprendere una partita di calcio, esistono le relazioni di tre o quattro seminari per addetti ai lavori e rare ricerche. Per Italia ‘90 ci sono quelle del Seminario di Verona (1989). Personalmente avevo già portato un mio contributo al Seminario di Berlino per gli Europei del 1988 (se ne trova una sintesi in Prometeo, rivista di scienze e storia, 7/25). 11 primo Seminario sul calcio che si ricordi è quello di Buenos Aires del 1978. Non esiste quasi nulla per le altre discipline eccetto che per l’atletica. (Che fanno le federazioni?) Vorrei però esemplificare la descrizione del mio lavoro, che non è banale, ma che certamente non ha niente di misterioso né di artistico. Per impostare e coordinare le riprese ho bisogno di conoscere le “regole” di svolgimento dell’evento ( e non a caso molte volte è il telecronista il mio primo consulente) e di rappresentarlo nella sua evoluzione spaziale e temporale. Lo spazio e il tempo sono i due parametri su cui s’imposta la ripresa dell’avvenimento sportivo. L’inquadratura interpreta lo spazio; la successione delle inquadrature realizza il tempo dell’evento. Le regole della disciplina sportiva, il suo svolgimento spaziale e temporale: tanto mi basta. La ripresa televisiva si occupa della fenomenologia dell’evento, ovvero dell’evento come fenomeno visibile e svolgentesi nello spazio fisico e nel tempo reale. Voglio dire che io mi occupo di ciò che si vede, di ciò che appare; non di ciò che è, di ciò che significa. Le immagini fanno vedere chiaramente che la Nazionale gioca male, ma non possono mostrarne le ragioni. Per usare un paio di paroloni, dirò che - come regista - non mi occupo della ontologia dell’evento, ma della sua fenomenologia. (Da cui la mia professionale predilezione per gli avvenimenti sportivi, che articolano regole e spazio-temporalità molto più ricche che non il congresso di partito o la Messa o il premio letterario). Queste sono le opportunità e i vincoli offerti alla regia dello sport: una casistica ampia di eventi e di regole; ma il limite obiettivo di poterne cogliere solo la superficie visibile, anche se dettagliata in ogni suo aspetto. Dell’atleta posso offrire il tic nervoso e la vibrazione muscolare, posso scrutarne il volto e coglierne le tensioni, sentire l’urlo e vedere la lacrima; posso seguire lo sguardo del suo avversario, la sua malcelata gioia o il disappunto; posso alternare le due storie nel contesto dello stadio (mi sta seguendo il telecronista?) dissolverle in una bandiera che accomuni il vincente e lo sconfitto ai loro diversi destini Ma sono già andato oltre la concretezza delle immagini: io non posso dire, non posso spiegare, non posso valutare. Ho sempre pensato che se portassimo la Gioconda tra le capanne di un villaggio africano o tra le favelas brasiliane, lasciandola alla curiosità della gente senza alcuna mediazione, il capolavoro di Leonardo non sarebbe più tale. Non spiegherebbe i suoi valori, perderebbe di senso. Ecco, le immagini da sole sono percepite come un indecifrato: è la parola che le reintegra nei significati.
Posizionare le telecamere è il primo atto operativo del regista nella fase del sopralluogo. Il posizionamento delle telecamere è l’intelligenza dello spazio in cui si muove la disciplina sportiva. Ma è anche la costruzione della sequenza, quindi l’architettura stessa del linguaggio. Si dà il caso che lo zoom, il replay, il colore, le radiocamere, la grafica modifichino profondamente il linguaggio e rivoluzionino gli stessi parametri di spazio e tempo ai quali siamo abituati nel nostro lavoro. Mi sono posto la domanda (e i curiosi ne troveranno traccia in un saggio pubblicato in Prometeo. rivista di scienze e storia, 10/3 5) se le riprese televisive degli avvenimenti sportivi possano ricondursi a dei sistemi generali. Ne ho individuati tre e ho scoperto che in ogni ripresa uno è il principale e due sono subordinati. Farò degli esempi. La partita di calcio (come il basket, la pallavolo, il pugilato e quant’altro) va ricondotta ad un sistema di ripresa sull’asse centrale, alternando totale e campo stretto. La F1 (come lo sci alpino) reclama invece un sistema sequenziale lineare: camera di partenza, prima curva, chicane, rettilineo ecc. fino, di nuovo, alla camera di partenza. Più complesso il sistema che regge le riprese di atletica o dello sci di fondo o della tappa a cronometro: qui il regista alterna una pedana (o un rilevamento o un passaggio) ad un’altra, estrapolando tra fatti contemporanei quello che ritiene giornalisticamente più importante. Questi tre sistemi coesistono. Ognuno di essi utilizza gli altri due come sottosistemi. Quando dalle telecamere centrali del calcio, il regista passa a quelle sui 16 m. o alle retroporta, il sistema ad asse centrale diventa sequenziale. Allo stesso modo, quando dopo aver seguito la testa della corsa con camere in successione, il regista lascia la sequenza per riferire del duello nelle retrovie, il sistema sequenziale diventa ad extrapolazione. Così, quando tra più concorsi di atletica scelgo il salto in lungo e metto in sequenza la presentazione, il gesto atletico, le reazioni dell’atleta, il risultato, dal sistema a extrapolazione sono passato a quello sequenziale. Il valore e il limite di queste considerazioni sono nella evoluzione tecnologica e nella sensibilità al linguaggio. A quale dei tre sistemi appartengono le riprese in movimento? Lo spazio raggiunto con lo zoom, con l’elicottero e la wescam, con il binario e la steady-cam, con le microcamere e le bird o le sky-cam, mettono in crisi il concetto stesso di posizionamento delle telecamere. L’intelligenza dello spazio euclideo, chiuso da telecamere fisse, con il loro stanco rituale di “totale, campo stretto, panoramica”, è sconvolto da una sola microcamera posizionata nell’abitacolo del pilota o appesa alle maglie della rete della porta. Allo stesso modo, il tempo reale della partita è invaso dal tempo virtuale degli slomo; il ritmo della ripresa interferisce sul ritmo della partita, annullando pause e tempi morti. Cambia lo sport mass-mediologico; la regia cambia e cambia anche la telecronaca. Nicolò Carosio raccontò che, in un certo momento storico, agli ascoltatori della radio veniva fornita una pianta del campo di calcio divisa in settori: Al, A2, B1, B2 e così via, come per la battaglia navale. Il radiocronista si ingegnava a descrivere l’azione offrendo anche la posizione dei giocatori sul campo: “ il centrocampista in A1 spedisce la palla al compagno in B2, il quale la restituisce al suo difensore in B1" Quando, non molti anni dopo, i primi capannelli di curiosi si radunavano davanti alle vetrine dei negozi di elettrodomestici per vedere la partita sui teleschermi in bianco e nero, quelle sbiadite immagini avevano sostituito la piantina dello stadio e ... la radiocronaca di Carosio. Lo zoom è degli anni 60. Solo nel 1970, ai Campionati del mondo messicani, si sperimentano i primi televisori a colori e le immagini rappresentano un po’ meglio la realtà. Con i Mondiali argentini assistiamo allo spettacolo del rallenty e compaiono i contributi grafici e informatici. Il Mondiale messicano, rovinato dalla tragedia del terremoto, ci consegna però una descrizione precisa del gioco e dei giocatori: ogni azione è ripetuta da 4 replay diversi e scopriamo il goal di mano di Maradona dall’opposite side. Il 90 consegna alla storia il primo mondiale di calcio in alta definizione: un’altra rivoluzione per i telecronisti. Il Mondiale americano non dice nulla, ma le ultime Olimpiadi (Atlanta 96) sfoderano la più avanzata tecnologia delle riprese in movimento: lo spettatore corre con il suo atleta, nuota e si tuffa con lui. Un’analoga rivoluzione ha investito le riprese sonore. Basta sfogliare qualsiasi manuale dì produzione di un Campionato del mondo o di una Olimpiade per rendersi conto che l’impianto audio è diventato più complesso di quello video. Il suono modifica profondamente l’immagine, ne esalta il valore, la apre alla realtà. I fiati e i colpi dei tennisti, le espressioni dei pugili agli angoli tra un round e 1’altro, le indicazioni dell’allenatore durante i time-out, sono tagli di realtà vera che si “sostituiscono” temporaneamente al telecronista. Che cosa succederà con il suono stereofonico e l’alta definizione? “Il regista - diceva di sé stesso F. Truffaut in uno dei suoi film - è uno al quale fanno sempre tante domande”. Personalmente sono gratificato dal ruolo, anche se del tutto improprio, che molti telecronisti assegnano al regista. Qualche volta ho l’impressione che gli si rivolgano come ad un tecnico o ad un responsabile organizzativo: non sono né l’una né l’altra persona. Il mio compito è solo quello di dirigere le riprese, non di organizzarle o farle funzionare tecnicamente. Certamente per dirigerle faccio verificare microfoni e inquadrature e istruisco il personale. Ma non sono responsabile di un replay alla Ridolini, di una inquadratura sbilenca, di un segnale instabile. Tanto meno sono responsabile della postazione cronaca. Mi aspetto invece che sia il telecronista a verificarla. E’ molto spiacevole per tutti veder arrivare il telecronista qualche minuto prima della trasmissione e protestare perché la postazione non è quella che si aspettava e i microfoni non sono di suo gradimento: nessuno ha l’obbligo di interpretare le personali esigenze del telecronista. Se questo contributo deve avere anche un valore operativo, devo ripetere quanto inutilmente si è andato suggerendo da almeno un lustro. Non senza aver fatto prima un cenno di storia aziendale. La attuale stagione della regia dello sport in Rai è iniziata nel 1985 e si è conclusa con la trasformazione del pool sportivo in Testata (e non in RAI SPORT, come in molti avevamo sperato dopo i Mondiali di calcio: ci si arriva solo oggi!). Per più di un lustro un gruppo di registi ha potuto impostare, provare, produrre gli standard di ripresa che hanno portato la RAI, dal terzo mondo televisivo dello sport, a livello dei broadcast internazionali. (Roma 87 e Italia 90 per tutti). In molti casi il telecronista è stato il referente d’obbligo e il primo consulente. Poi un costante declino, che ha molte cause: dal palinsesto, ai mezzi tecnici distribuiti a pioggia, alla casualità delle equipes di ripresa, alla mancanza stessa dei grandi eventi e - non ultimo - al rapporto tra i registi e la Testata e, in particolare, tra registi e telecronisti. Qui ed ora, per
la produzione corrente, non costerebbe nulla istituire un tavolo di
lavoro intorno al quale registi e telecronisti, analizzando qualche
cassetta, possano stabilire lo standard di ripresa. Non sarebbe questa
una parte integrante della linea editoriale? |
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Giancarlo TOMASSETTI |